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I Palmenti etnei: le case-cantina che cambiarono la storia del vulcano

Il fascino degli antichi palmenti etnei va molto oltre il valore estetico. E’ testimonianza preziosa di una cultura millenaria del vino dell’Etna che rende certamente un priviliegio poter avere questo particolare all’interno della proprietà. Il palmento è un’evoluzione del Torcularium delle antiche ville pompeiane e stabiane del periodo romano. L’elemento centrale è costituito dal torchio per la pressatura delle vinacce. Inizialmente a leva, il sistema di pressatura fu sostituito dalla vite, una evoluzione tecnica che sull’Etna consentì una sempre più diffusa trasformazione dei terreni collinari etnei, che in poco tempo diventarono stupendi vigneti. Per questo motivo, nell’area etnea il palmento fu un elemento di rilevanza economica, sociale e politica. Un cambiamento che, per la quantità di tempo e lavoro necessario, portò molte famiglie a dotare i terreni di abitazione e dell’immancabile palmento, per la trasformazione dell’uva.

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Il tipico palmento dell'Etna


Fu così che le contrade dell’Etna vennero presto colonizzate da centinaia e centinaia di case-cantina caratterizzate da un piano affacciato su una terrazza sostenuta da poderosi archi sul piano terra per riparare i locali della cantina.

 

A caratterizzare il tipico palmento etneo, oltre all’utilizzo della pietra lavica, la sua struttura che sfrutta la sola forza di gravità nelle operazioni di vinifìcazione, senza alcuna attrezzatura di sollevamento del liquido. 

L’uva raccolta nelle ceste di canne intrecciate (le “coffe” o “cufini”) veniva portata a spalla fino al palmento dalle squadre di operai (le “ciurme”). Quindi, salendo per delle scale nella parte alta del palmento, scaricavano l’uva attraverso una finestra nella “pista”, una vasca in pietra lavica dove i “pistaturi” la pestavano a piedi nudi o con pesanti scarponi. Questi operai effettuavano un girotondo cantando canzoni popolari tipiche della vendemmia, con passi ritmati e le mani dietro la schiena. Per aiutarsi a pressare ulteriormente i grappoli, veniva utilizzata una ruota del diametro di circa un metro e mezzo costruita con rami di salice intrecciati, detta “sceccu”. Vi salivano sopra più persone con una tecnica particolare, ponendo prima un solo piede finché, al comando di uno di essi, i pistaturi salivano tutti contemporanamente sullo “sceccu”, pressando così ciò che restava dei grappoli. 


Il mosto, attraverso stretti canali in pietra lavica, defluiva in un’altra vasca sottostante detta tina, costruita con lastroni di pietra lavica, in cui duran­te la pigiatura si rimettevano di volta in volta, i grappoli già pressati (bucce e raspi) della pista.


Per fortuna il fascino di queste costruzioni, molte delle quali hanno ancora gli originali torchi di castagno ricavati da enormi tronchi, ha fatto sì che molte di queste testimonianze rurali possano essere apprezzate ancora oggi in molti antichi casali dell’Etna.

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